Prepariamoci a nuovi modelli di business

Il professor Giambattista Gruosso del Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria del Politecnico di Milano, profondo conoscitore dell’industria manifatturiera italiana e delle sue trasformazioni, ci ha concesso una chiacchierata sullo stato dell’arte e sulle prospettive della digitalizzazione in Italia, partendo dalle tendenze emerse dalle analisi che con il suo team conduce ogni anno relativamente alle competenze meccatroniche nei distretti industriali italiani, contestualmente al Forum Meccatronica. L’evento di settore, organizzato da ANIE Automazione e Messe Frankfurt Italia, ha ispirato e promosso tramite i due enti l’Osservatorio.

di Fabrizio Dalle Nogare

Partiamo dall’indagine realizzata con il suo gruppo di lavoro per il progetto “Mappatura delle competenze meccatroniche”, promosso da Messe Frankfurt Italia e ANIE Automazione, che sarà presentato a dicembre e quest’anno ha riguardato le Marche. Quali sono i principali aspetti emersi e cosa vi ha più sorpreso?

I territori presi in esame dalle indagini che abbiamo condotto in questi anni sono molto differenti tra loro. All’interno dei singoli territori, però, si nota una contaminazione delle best practices dovuta al fatto che gli imprenditori comunicano tra loro, dando vita a forme di imitazione positive. Come tendenza, nel territorio marchigiano abbiamo notato che anche il mondo dei servizi, fino a non molto tempo fa totalmente estraneo a quello dell’industria, guarda con maggiore attenzione ai temi dell’automazione. Questo deriva anche dal fatto che alcune soluzioni – pensiamo al cloud – nate per altri contesti vengono sempre più applicate al mondo industriale.

Quali richieste arrivano ai fornitori da parte di chi utilizza le soluzioni di automazione, vale a dire costruttori di macchine e, ovviamente, end user?

Una maggiore applicabilità degli strumenti di intelligenza artificiale, innanzitutto. Chi opera nell’industria conosce le potenzialità del cosiddetto machine learning e c’è parecchia curiosità intorno a questo tema. Poi, risparmio energetico e manutenzione predittiva sono sicuramente i due aspetti più immediatamente comprensibili dal punto di vista del processo industriale. Tuttavia, si fatica a trovare chi sappia davvero gestire i sistemi in funzione dell’analisi dei dati di produzione: le architetture sono ben attrezzate per raccogliere i dati, però spesso manca il cosiddetto data scientist, cioè una figura in grado di studiare e analizzare queste informazioni, anche perché i fornitori di tecnologia tendono a ridurre le competenze di natura informatica richieste ai clienti tramite l’uso di App dall’interfaccia semplice e intuitiva. Un’altra richiesta riguarda l’interoperabilità dei componenti che costituiscono le architetture, per evitare che una soluzione tecnologica possa condizionare la scelta dell’architettura di gestione, soprattutto della parte informatica. In sintesi, c’è la volontà di utilizzare le tecnologie di automazione ma, al tempo stesso, anche un po’ di diffidenza legata al fatto che i risultati non sono così facilmente misurabili.

Quali sono i principali rischi per gli imprenditori che si approcciano alla digitalizzazione dei processi?

Ne vedo almeno tre. Il primo è sottovalutare sia le potenzialità che i costi di questa trasformazione. Il secondo è investire senza avere una strategia, o una visione, rischiando quindi di far lievitare i costi. Il terzo rischio è non considerare il legame tra tecnologia e capitale umano: senza un’adeguata formazione delle risorse, le tecnologie rimangono inutilizzate o ingestibili. Parlando di Industria 4.0, a mio parere molti considerano, sbagliando, la sola questione della connettività, mentre in realtà lo scenario è molto più complesso e caratterizzato dalla commistione di diverse tecnologie. Per fare un esempio più concreto, ci sono aziende che hanno approcciato la questione già anni fa, ma in modo piuttosto casuale, spesso iper-sensorizzando un macchinario, salvo accorgersi degli errori dopo le prime analisi. Oggi non è più ammissibile ripetere gli stessi errori.

Ritiene che la meccatronica e la digitalizzazione possano, a medio-lungo termine, favorire la nascita e lo sviluppo di imprese manifatturiere anche in regioni oggi meno avanzate, come quelle del Centro-Sud Italia?

È un tema abbastanza caldo. Portare tecnologie in un tessuto di aziende più restie a questo tipo di investimenti è di certo più complicato. Indubbiamente la tecnologia porta un beneficio, ma il problema della disponibilità di una rete di infrastrutture adeguata – sia fisica che virtuale – rimane centrale e non può essere eluso. È diverso, per esempio, completare e aggiornare la copertura digitale di un territorio rispetto a costruire ex-novo una copertura digitale. Riguardo al Mezzogiorno, ci sono diverse esperienze di aziende fortemente tecnologiche e integrate con i processi più moderni: sono realtà che hanno spesso fatto degli investimenti e adeguato il loro sistema di lavorare, di gestire i processi di produzione. Ci sono, però, differenze importanti anche tra le diverse zone del Mezzogiorno.

A proposito di competenze, oggi si evidenzia una discrasia tra sviluppo tecnologico e competenze delle persone chiamate a gestire i processi. Secondo lei, questo è un fattore di rischio per l’industria italiana?

Non credo che si tratti di per sé di una mancanza di competenze tout court, quanto piuttosto di una mancanza di competenze nei singoli territori. Oggi i bacini di attrazione di certa formazione sono spesso lontani dai territori in cui la formazione è erogata. In altre parole, le competenze ci sono, ma non sempre le aziende riescono a essere attrattive nel portarle verso i loro territori. Gli enti formativi italiani si dimostrano attrezzati nel fornire le cosiddette hard skill, altrimenti non si spiegherebbe perché i nostri laureati sono appetibili all’estero. Indipendentemente dal programma promosso dal governo, manca ancora una reale alternanza tra scuola e lavoro, un sistema che permetta agli studenti di fare pratica. Le università o gli istituti tecnici possono insegnare a implementare una tecnologia, o le formule legate a un problema, ma non possono insegnare agli studenti cosa significa lavorare all’interno di un processo aziendale. Allo stesso modo, è assolutamente fondamentale oggi pensare a dei percorsi intermedi di riqualificazione delle risorse, che possano integrare le competenze “hard” con le soft skill, quanto mai cruciali nel contesto attuale.

Anche grazie all’azione del governo, nel dibattito si sta sempre più affermando l’espressione “impresa 4.0” come alternativa italiana all’“industria 4.0” di matrice tedesca. Si tratta di una semplice questione di marketing oppure è un concetto che gli imprenditori in Italia dovrebbero far proprio per introdurre in modo più efficace la digitalizzazione?

Innanzitutto, il marketing non dovrebbe essere visto con accezione negativa. Le tecnologie che ricadono sotto il nome di Industria 4.0 possono portare un beneficio reale al paese, finalizzato alla crescita dell’export, in grado di generare PIL aggiuntivo. Se si analizza il contesto anche sovranazionale si capisce che è sempre più difficile contare su posizioni di vantaggio, anche perché le tecnologie non sono più appannaggio soltanto di un territorio o di una zona del mondo: pensiamo per esempio alla Cina, oggi in grado di creare sistemi fortemente automatizzati basati su tecnologia tedesca. Inoltre, gli imprenditori non possono più affezionarsi ai loro prodotti, ma dovrebbero pensare che, in realtà, la trasformazione oggi in atto può portare a un cambiamento del loro business. Siamo certi che, in futuro, si venderanno gli stessi prodotti di oggi? Come si può cambiare il business sulla base della trasformazione dettata da Industria 4.0? E come dare valore ai servizi, oltre che ai prodotti? Sono tutte domande che devono far parte della visione degli imprenditori illuminati.